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Blue Jasmine di W. Allen, tra finezza psicologica e ironia tragica

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Dopo il successo mondiale di Midnight in Paris e l’incompreso omaggio verso il cinema italiano To Rome with Love, l’instancabile genio di Woody Allen ci regala ancora, dopo piu di quaranta anni e più quaranta pellicole, un’altra perla: Blue Jasmine infatti non è definibile in altro modo e ha già messo d’accordo, nel resto del mondo, pubblico e critica.

Blue Jasmine è ispirato a un fatto di cronaca realmente accaduto, ma presenza al tempo stesso molte – volute – assonanze con il capolavoro Un tram chiamato desiderio di Tennessee Williams, portato sul grande schermo da Elia Kazan. Jasmine/Jeanette è un personaggio assolutamente nevrotico e privo di aspetti positivi, perfettamente delineato da Allen e brillantemente interpretato da una Cate Blanchett superlativa e perfetta, mai sopra le righe o sottotono. La divina Blanchett è accompagnata dalla dolcissima e irresistibile Sally Hawkins (La felicità porta fortuna – Happy go Lucky) nel ruolo di sua sorella acquisita, la quale dimostra sempre una gentilezza genuina nei confronti di Jasmine, nonostante da lei non riceva molto in cambio.

Il rapporto tra le due diversissime sorelle e l’intreccio di conseguenze che ognuna porta nella vita dell’altra è al centro del film: l’una, Jasmine, inadeguata al di fuori del contesto dell’alta società newyorkese (rappresentata dall’ex marito, Alec Baldwin) e apparentemente incapace di reagire, sembra quasi che influenzi di rimando alcune scelte della sorella più piccola, nonostante teoricamente quest’ultima si trovi di base in una posizione più felice e stabile nella sua cheap San Francisco. La leggerezza e precisione di Allen nel disegnare questo rapporto non può che ricordarci il contrastato trio di Hannah e le sue sorelle, dove incomprensioni e reciproci affossamenti di autostima spesso la fanno da padrone. Filo da torcere avrà infatti Bobby Cannavale (visto in Boardwalk Empire), il Kowalski/Marlon Brando della situazione, intollerante verso gli umori della sua cognata snob Jasmine, novella volubile Blanche che tende a modificare la realtà più a parole che nei fatti…

A parte la costellazione di rapporti, di cui Woody Allen è rinomato maestro, c’è un elemento che in Blue Jasmine spicca sopra gli altri ed è il montaggio, il quale è parte integrante e insostituibile della sceneggiatura stessa del film. Come nelle tragedie, dove lo spettatore era sempre a conoscenza del passato alto e felice dei nobili protagonisti (magari per racconto degli stessi a delle balie o grazie al mito di riferimento), assistiamo costantemente e sistematicamente a scene del passato della protagonista, grazie alle quali constatiamo la realtà dei fatti e riusciamo a comprendere a pieno la situazione e i motivi che hanno portato Jasmine ad un determinato stato mentale. Questo sofisticato uso del montaggio in scrittura non può che ricordarci un altro dei capolavori, forse un po’ dimenticati, del regista newyorkese, ovvero Un’altra donna con Gena Rowlands.

Blue Jasmine però non ricorda soltanto i tipici film degli anni ottanta di Woody ma aggiunge qualcosa di completamente nuovo e insolito nella sua filmografia, una spietatezza e una lucidità forse mai viste prima, unita a delle contaminazioni del cinema indie per alcune atmosfere non prettamente alleniane e riguardante soprattutto alcuni personaggi secondari, fondamentali in un film in cui la protagonista è volutamente insopportabile. Si noti anche la novità tecnica del formato di ripresa più ampio (2:35:1), usato per la terza volta da Allen dopo Manhattan e Anything Else.

Cosa aggiungere? Blue Jasmine è un ritratto di una finezza psicologica e di un’ironia tragica tali che è come se fosse già un classico. Da non perdere, assolutamente. Da vedere in originale se possibile.

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9 commenti su “Blue Jasmine di W. Allen, tra finezza psicologica e ironia tragica

  1. Mi è piaciuto molto, dopo la delusione che ho provato per il film romano.

    Poi la protagonista, oltre che bellissima, è anche davvero brava (come al solito, oserei dire). Bravo Woody.

  2. Io l’ho appena visto, e l’ho trovato molto bello! Solo che ultimamente ogni volta che vedo un film di Woody Allen all’uscita dal cinema penso con la voce di Paolo Buglioni. E coi toni che usano nel film! Voglio dire… tu un attimo prima sei lì, in sala, che aspetti che cominci il film, e due ore dopo… BAM! Ti ritrovi a pensare con la voce di Paolo Buglioni e a parlare come parlavano Alec Baldwin e tutta quell’altra congrega di tizi simili a lui nella pellicola… Suppongo dipenda dal super-io. Sai… io sono sempre stato molto ricettivo riguardo a queste cose… Ora scusate, ma non credo di poter leggere questa recensione senza un drink.

    • C’è un unico modo per risolvere questo “buglionismo joyciano” di ritorno e si chiama proiezione in lingua originale! Io risolvo così queste diatribe doppiaggistiche, anche perché sennò sono capace di passare tutto il film a pensare dove ho sentito questa o quell’altra voce, il che distrae parecchio, anche se come comportamento nevrotico alleniano calza a pennello…

      • Poi penserei con la voce di Alec Baldwin e saremmo punto e a capo. D:
        Non sono uno che si lamenta dei doppiaggi. Anche perché la stragrande maggioranza delle volte non c’è nulla di cui lamentarsi.

      • No, ma infatti nemmeno io mi lamento: li vedo direttamente in originale e via… è una sorta di questione etica nei cofronti degli attori e del film, non mi va di vedermi un altro film, tutto qui!

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